Nell’estate del 1943 la caduta di Mussolini e, poco dopo, l’annuncio dell’armistizio con gli angloamericani diedero vita ad una diffusa e spontanea esplosione di giubilo popolare in tutta Italia, una generale soddisfazione che tuttavia non sapeva e non poteva prevedere la fase difficile, violenta e sanguinosa verso la quale si stava avviando il nostro Paese. Il mattino successivo alla fatica data dell’8 settembre 1943 si apriva con questa scena: un gruppo di giovani di Stienta che si reca con un camion sul ponte del Po a Santa Maria Maddalena e, da quel punto, preleva due mitragliatrici, più numerose munizioni abbandonate dai militari di guardia, che sarebbero poi state trasportate e custodite nella località di Zampine, uno dei centri dai quali, nelle settimane e nei mesi seguenti, si sarebbe sviluppato il movimento partigiano. Tra questi giovani, Emilio Bonatti, colui che diventerà il Comandante Murin, tra i principali animatori della Resistenza in Polesine e, dopo la guerra, dirigente politico, amministratore, parlamentare comunista, presidente dell’Anpi. In quella fase concitata, di incertezza e sbandamento, mentre veniva costituita la Repubblica di Salò, diversi giovani polesani – dall’Alto Polesine al Delta del Po – si incontravano per costituire i primi gruppi spontanei di “resistenti” alla restaurazione del fascismo. Un fascismo vecchio e insieme “nuovo”, un seme violento innestato su un regime piegato ai voleri dell’occupante tedesco e attraversato, oltre che da velleitarie istanze di socializzazione, da spinte estremistiche, da progetti di rivalsa e pulsioni di vendetta, da un livido culto della violenza e della morte. Già nel mese di settembre del ‘43, a Rovigo, la nascita del regime fascista repubblicano si annunciava, tragicamente, con i primi rastrellamenti nella comunità ebraica di Rovigo effettuati da agenti della polizia fascista e da soldati tedeschi. Le prime vittime: donne anziane, inermi, destinate ai campi di concentramento nazisti. Eppure, mi sembra che ritornando su questi eventi non possiamo limitarci a parlare di una presunta “morte della patria”: è nella Resistenza, dentro questo movimento che si organizza, spesso in modo spontaneo e oltre le appartenenze politiche e ideologiche, che possiamo piuttosto veder nascere la coscienza di una nuova patria, libera, democratica, repubblicana, fondata sulle energie del lavoro.
In Polesine, la guerra si farà presto cruenta e spietata, con attentati, rappresaglie, violenze, stragi. In particolare, i rastrellamenti saranno numerosi e diventeranno quasi quotidiani. Inizialmente rivolti alla cattura di lavoratori da inviare in Germania, si trasformeranno in operazioni sempre più violente condotte contro i renitenti alla leva e contro i partigiani, mantenendo sempre, tuttavia, un obiettivo in realtà anche più ampio. Portare violenza, distruzione, rassegnazione, demoralizzare, fiaccare la popolazione, estirpare sul nascere ogni possibile anelito di libertà. Come spiegherà, durante uno dei processi celebrati dopo la fine del conflitto, la Corte d’Assiste Straordinaria di Rovigo: “E’ noto che i rastrellamenti, avessero per scopo la cattura o l’uccisione di cosiddetti ribelli o rappresaglie o altri fini (…) si risolvevano in operazioni a mano armata per opera di molte persone e conseguentemente avevano la massima attitudine a generare terrore non solo nelle bande dei patrioti, ma anche in quelle persone che sarebbero state disposte a prestare aiuto e assistenza”. Il vero e proprio clima di terrore causato dai rastrellamenti e dalle rappresaglie, come è stato notato da un giovane studioso polesano, Gino Bedeschi, autore di uno studio analitico sul fascismo di Salò nella nostra provincia, doveva scuotere nel profondo il morale delle popolazioni e “indurle a venir meno ai loro doveri di fedeltà verso lo stato italiano”, cioè verso quello stato italiano che adesso si trovava in guerra contro la Germania nazista.
Il rastrellamento di Stienta di settantacinque anni fa è stato il più massiccio tra quelli che vengono effettuati nel Polesine durante la guerra e il periodo di Salò, con dispiego di uomini e mezzi. In questa tragica occasione, i fascisti possono contare anche su di una divisione tedesca che si stava dirigendo verso la Linea Gotica. E’ l’alba del 26 ottobre 1944, quando 1.400 soldati tedeschi e 500 militi della Brigata Nera e della GNR accerchiano la località di Zampine, avanzando con autoblindo e mitragliatrici, come è stato raccontato, “sotto forte pioggia e vento gelido”. Durante la vasta operazione, i nazifascisti rastrellano 2.800 persone e le riuniscono sulla piazza di Stienta, per il riconoscimento e gli interrogatori. Gli antifascisti più noti sono oggetto della violenza che non tarda a mnifestarsi, gli arrestati sono 255 e identificati come partigiani, disertori, renitenti. L’inizio di un calvario che porta fino al campo di concentramento di Dachau. I più fortunati riescono a fuggire. Durante il rastrellamento vengono saccheggiate e distrutte le abitazioni di vari cittadini, mentre ad un altro centinaio di famiglie saranno sottratti beni per un valore pari a circa due milioni di lire dell’epoca. Il partigiano Bellino “Tito” Varliero viene sommariamente fucilato con quattro partigiani della sua banda: i corpi di Varliero e quelli di due russi, appena trucidati, sono infine portati nella piazza di Stienta.
Per chi, ancora oggi, fosse incline a pensare ad una relativa “mitezza” dei fascisti italiani rispetto ai soldati tedeschi, può essere utile citare la relazione del comandante della GNR Vittorio Martelluzzi, all’indomani del rastrellamento: “Le forze, schierate in formazione accerchiante, hanno mosso dalle rispettive posizioni alle ore 6,30 del mattino anziché alle 5,30 come era previsto. Le notizie giunte all’UPI circa lo svolgimento delle operazioni nei particolari, l’esito del rastrellamento, se non è stato del tutto positivo è stato soddisfacente e sarebbe stato molto più redditizio se l’errata interpretazione di un ordine da parte di un reparto germanico non avesse fatto in modo che i partigiani catturati alle Zampine, portati al punto di concentramento, non fossero stati messi insieme agli uomini dei paesi di Fiesso Umbertiano, Occhiobello e Stienta, rastrellati dai camerati germanici. (…) Dei duemila e ottocento rastrellati sono stati trattenuti tutti gli uomini appartenenti alle classi richiamate alle armi nel numero di 255 i quali furono portati a Rovigo e messi a disposizione di questo UPI, presso la Caserma Silvestri…”
In questo territorio, il movimento partigiano è stato un movimento di popolo, che ha saputo condurre la lotta di liberazione e, allo stesso tempo, preparare il terreno per la nascita della nostra democrazia. Questa, ad esempio, è la voce di Pietro Secchia, protagonista della Resistenza italiana e poi influente vicesegretario del Pci con Togliatti, che in una relazione descrive la situazione di Stienta e del Polesine nel corso del conflitto, con uno sguardo rivolto alla presenza comunista: “Attualmente il federale è costituito con due zone e il lavoro procede abbastanza bene specie nella zona di Stienta. (…) La federazione conta 970 compagni, in grande maggioranza braccianti agricoli entrati nel partito dopo il 25 luglio. La zona di Stienta, roccaforte della federazione, conta 335 compagni di cui 125 a Stienta (abitanti 4.000). 112 giovani e 20 donne”. Due notazioni interessanti di Secchia: “Vi è una sorda e palese resistenza a colpire i tedeschi”. E poco più avanti: “i compagni sostengono che i contadini non ci sono, che ci sono invece 50.000 braccianti in tutta la provincia”.
Ringrazio l’amico Antonio Bolognesi per avermi fatto avere le parole del partigiano Emilio Ferrari, deceduto a Collegno (Torino), dove era emigrato dopo l’alluvione del 1951. Era l’ultimo partigiano della Brigata ”Antonio Bonatti” ancora in vita. Così parlava il partigiano Ferrari: “Quel rastrellamento è stato terribile. Stienta è stata circondata da una divisione di 1600 soldati tedeschi e 500 brigate nere fasciste. Erano partiti dai paesi attorno, Fiesso Umbertiano, Occhiobello, Gaiba. Alla fine i nazi-fascisti hanno preso più di 2000 persone, li hanno portati nelle scuole e al Teatro Cazzoli di Stienta e a Gaiba nella Villa Fiaschi-Stampanoni. Tanti sono stati interrogati, picchiati e alla fine molti, quasi 200, sono finiti in Germania nei campi di concentramento. Io mi sono salvato perché sono rimasto nel rifugio nelle Zampine vicino a casa”. E sulle azioni dei partigiani: “si facevano azioni di sabotaggio, andavamo sulla ferrovia nella zona tra S. Maria e Canaro a smontare i binari del treno, tranciavamo i cavi elettrici. Si rubavano anche armi e munizioni”.
La Resistenza animata dal mondo bracciantile in Polesine ha potuto essere descritta come lotta di popolo e, anche, come guerra di classe, dai tratti peculiari: “Tutto sembra indicare, ad esempio, che lo sviluppo della resistenza armata nella bassa pianura veneta rechi il segno inconfondibile della forte coscienza di classe del proletariato rurale e della sua profonda tradizione socialista, che vent’anni di fascismo non erano riusciti a cancellare. E’ una pagina della Resistenza immeritatamente ignorata – il silenzio contadino non si smentisce […] Benché il terreno non si presti all’azione armata delle bande e alla costituzione di grandi formazioni combattenti, in alcune zone del Polesine esplode una guerriglia violenta e implacabile che semina il terrore tra i fascisti. Decine di militi neri vengono eliminati nell’estate del 1944 dai partigiani, che spesso affrontano sul terreno brevi sanguinosi scontri. Credo che nulla di simile – scrive lo storico padovano Angelo Ventura, siamo negli anni Settanta -, con pari intensità, sia dato registrare in altre parti della pianura veneta […] Il fatto è che nel Polesine la Resistenza sembra assumere il carattere di una lotta di classe, in contrasto con la linea di unità nazionale propugnata dai Cln e dagli stessi partiti di sinistra […] I comunisti del Polesine non vogliono sentire parlare di Comitati di difesa dei contadini, e giungono a sostenere che non ci sono contadini ma soltanto braccianti”.
L’autunno del 1944 segnerà l’inizio di una fase delicata per il movimento partigiano. Il 15 ottobre vede l’eccidio di Villamarzana, con le sue 43 vittime innocenti. Nel secondo rastrellamento di Stienta, il 30 dicembre 1944, Emilio Bonatti sarà gravemente ferito negli scontri armati alle Zampine. Catturato, torturato, condannato a morte e, successivamente, trasferito all’ospedale psichiatrico di Rovigo, riuscirà ad evadere con l’aiuto di medici e infermieri. Questa nuova operazione viene effettuata dalle compagnie BN di Trecenta, Badia Polesine e Fiesso Umbertiano per la cattura dei capi partigiani Antonio Bonatti e Severino Bolognesi. I rastrellati sono una trentina, una decina le abitazioni bruciate. Durante le azioni contro i partigiani, non sono pochi i fascisti che approfittano della situazione non solo per danneggiare o distruggere i beni altrui, ma anche per compiere furti e veri e propri saccheggi. Antonio Bonatti viene portato dopo l’arresto al Teatro Sociale di Rovigo e qui torturato fino alla morte. La lingua gli viene asportata con una tenaglia, quando il partigiano è già agonizzante, in segno di disprezzo per il suo eroico silenzio. La Liberazione in Polesine arriverà il 24 aprile 1945, quando l’esercito britannico riesce a piazzare teste di ponte tra Stienta e Gaiba ed è in grado di fare il proprio ingresso nella provincia di Rovigo.
Oggi ricordare questi fatti è per noi un dovere. Un dovere della memoria e un omaggio alle radici della nostra Repubblica. Un momento che deve unire e non dividere, una celebrazione che non è retorica, ma ci aiuta a far conoscere la nostra storia e a proiettarla verso il futuro. Dobbiamo educare i giovani e respingere con fermezza i revisionismi e le provocazioni di chi vorrebbe addirittura cancellare o privare di significato queste commemorazioni, riscrivere la storia stravolgendo i fatti e negando le più elementari verità. La dura, durissima realtà della “guerra civile”, o il dovere dell’umanità verso i vinti non possono parificare torti e ragioni, né occultare colpe e responsabilità. Non soltanto il sonno della ragione, infatti, ma anche il sonno della memoria può generare mostri, riaprire le ferite della storia, preparare il terreno per il sorgere di nuove tensioni e nuovi conflitti, spingendoci inesorabilmente a rivivere momenti bui.
Stienta, Rovigo, il Polesine hanno pagato con il prezzo del sangue la volontà di prendere parte all’epopea della Resistenza e della lotta di liberazione: hanno voluto con forza riappropriarsi della libertà e della vita civile, potendo da subito contare sul coraggio e sull’impegno della parte migliore della propria gioventù. Lo si ricordi nei luoghi pubblici, nei posti di lavoro, nei consigli comunali e nelle scuole, nelle nostre strade. Si ricordino i nomi di chi si è sacrificato, le pagine più tristi e quelle più esaltanti, si esplorino nuove occasioni e nuove vie anche per trasmettere il ricordo e la memoria, come fortunatamente è stato fatto in questi ultimi anni con gli articoli, i libri, le mostre fotografiche, ma anche i documentari, i film, un serio lavoro di ricerca e di approfondimento che ha visto finalmente in prima fila una nuova generazioni di studiosi, intellettuali, artisti.
Il racconto della democrazia passa anche dai nostri paesi e dalle nostre strade, dalla memoria di chi – dall’Alto al Basso Polesine, partendo da Stienta – scelse coscientemente di essere “partigiano” e di combattere per la patria. Camminare sulle orme dei resistenti è certamente anche un modo per indagare sulla nostra storia e per ripercorrerne le tracce, per crescere e per diventare cittadini – cittadini maturi, coscienti, esigenti. Si trattò di un movimento nuovo nella storia d’Italia, per certi versi di un “secondo Risorgimento”, di una reazione prima morale e poi politica alla guerra e alla dittatura. Un movimento composito e articolato, sia per appartenenza politica che per stratificazione sociale interna, ma – in definitiva – è questo il momento in cui il popolo italiano torna ad essere il vero protagonista della propria storia, riprende in mano il proprio destino.
E in questa lotta per la patria e per la libertà confluirono le più diverse ispirazioni e diversi ideali politici. Nel grande progetto comune si ritrovarono, con il supporto degli Alleati, che avanzavano da sud lungo la penisola, e fianco a fianco, non senza difficoltà e contraddizioni, comunisti, cattolici, socialisti, azionisti, laici, monarchici, liberali… Sopra ogni cosa, tuttavia, stava la volontà di uscire dall’incubo della dittatura e dell’occupazione nemica.
Lo sbocco finale di tante lotte e di tante sofferenze: la democrazia, la Repubblica, la nostra Costituzione. Una pagina davvero nuova della nostra storia nazionale. Il grande linguista Tullio De Mauro ha sottolineato nei suoi studi “l’eccezionalità linguistica della Costituzione”, cioè il suo essere un testo sorprendentemente chiaro rispetto alla tradizionale difficoltà e oscurità di tanti testi di legge, cui siamo tuttora abituati. La Costituzione italiana, entrata in vigore il 1. gennaio 1948, è un testo pensato e scritto per essere realmente fruibile e comprensibile. Da tutte e tutti.
Tornano subito in mente le parole di Giacomo Matteotti che, esattamente cento anni fa, nel 1919, individuava come uno snodo fondamentale per lo sviluppo futuro della democrazia in Italia il superamento di un profondo squilibrio, il superamento di quella società in cui si era “o dottori o analfabeti”… Per costruire la democrazia, per creare una civiltà avanzata, servivano lo sviluppo e la rapida diffusione – in una società per molti versi ancora arretrata, caratterizzata da un enorme divario tra nord e sud, ma anche tra città e campagna – di una nuova cultura tra la masse, di un sistema educativo adeguato, “quella media cultura – scriveva Matteotti – che è necessaria per l’esercizio intelligente delle industrie, dei commerci, dell’agricoltura, cioè per lo sviluppo della ricchezza nazionale”.
Un tema che si è riproposto con la massima urgenza, dopo la tragica fine del Ventennio fascista e con l’avvento della democrazia nata dalla Resistenza. Del resto, è il grande giurista Piero Calamandrei, nel suo discorso alla Costituente del 4 marzo 1947, ad affermare: “io credo che in questo nostro lavoro soprattutto ad una meta noi dobbiamo, in questo spirito di familiarità e di collaborazione, cercare di ispirarci e di avvicinarci. […] Il nostro motto dovrebbe esser questo: ‘chiarezza nella Costituzione’”. Non esiste vera democrazia senza chiarezza, si potrebbe dire, e non esisterebbe la possibilità di radicare una giovane democrazia senza educazione, dopo anni di violenze e di un indottrinamento che veniva dall’alto e non ammetteva critica; di conseguenza occorre far vivere un nuovo concetto di cittadinanza e bisogna far acquisire una effettiva consapevolezza dei propri diritti a tutti i nuovi cittadini dello stato democratico. Democrazia voleva dire anche riformare la lingua della politica e dei diritti, sradicare la falsa retorica del fascismo.
Ma cosa ci dice, di più, un padre costituente come Calamandrei, in quello stesso intervento rimasto giustamente famoso? Calamandrei sostiene che a scrivere la Costituzione non siano stati loro, cioè i deputati Costituenti, e sottolinea che gli autori reali di questo documento fondamentale sono stati i protagonisti, famosi e anonimi, di “un popolo di morti”: quei morti italiani caduti in prigionia, sui monti e nelle pianure durante la Resistenza, nei mari e nei deserti, dalla Russia all’Africa.
Queste le parole di Piero Calamandrei, che valgono ancora oggi per tutti noi e che ci parlano anche dei tanti combattenti per la libertà di Stienta e dei nostri paesi, eroi comuni, eroi silenziosi, eroi senza retorica: “Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile: quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole: quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti. Non dobbiamo tradirli”.
Diego Crivellari